30 anni fa: Inverno 1984-85

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L’instancabile e vulcanico Mario Monaco terminò di realizzare, a inizio 1985, una camera di ipersensibilizzazione. A cosa serviva un siffatto strumento?
L’emulsione fotosensibile delle pellicole fotografiche soffre del cosiddetto difetto di reciprocità, cioè, per i tempi tipici delle esposizioni delle fotografie astronomiche, l’annerimento della pellicola non è più proporzionale alla quantità di fotoni ricevuti. Poiché le pellicole fotografiche in grado di avere risoluzioni interessanti sono  poco sensibili, non si riusciva quindi a utilizzare tali pellicole in maniera soddisfacente perché, a causa del difetto di reciprocità, il substrato non risultava sufficientemente impressionato anche usando tempi lunghi.
Un modo per ovviare a tale difetto era quello di ipersensibilizzare appunto le pellicole.
Diversi erano i metodi (lo stesso Mario Monaco provò ad esempio a ipersensibilizzare tramite l’ammoniaca chiudendo le pellicole in un armadio a contatto con tale sostanza e soffiando loro aria calda con il phon), ma il metodo principe consisteva nel mettere l’emulsione in una miscela di forming gas (90% azoto e 10% idrogeno) a una temperatura di circa 50-60°C.
L’apparecchiatura consisteva quindi in un contenitore in cui era possibile prima fare il vuoto (per eliminare l’atmosfera), poi inserire il forming gas e scaldare. Tali apparecchiature erano presenti in commercio, ma, per ridurre la spesa e, soprattutto, mi sento di dire, per potersi cimentare con fantasia e sofferenza nella realizzazione di un’apparecchiatura propria, Mario Monaco decise di autorealizzare la camera. La gestazione della camera durò quasi un anno e mezzo.
Estraiamo, da Cielosservare n. 26 (febbraio 1985) la descrizione di Mario Monaco  del cuore dell’attrezzatura: “…pentola d’acciaio con coperchio a tenuta stagna e una pompa da frigorifero per praticarvi il vuoto…termostato costituito da una resistenza NTC (coefficiente termico negativo) inserita in un ponte di Wien la cui uscita è amplificata da un operazionale μa 741; quest’ultimo, tramite un transistor di potenza, pilota un relè che comanda l’accensione di un fornello elettrico che scalda la pentola. L’operazionale ha un circuito di controreazione che permette di stabilire con un potenziometro l’intervallo di temperatura di intervento del termostato. La temperatura è conosciuta tramite una termocoppia, la cui uscita è fatta tramite un microvoltmetro digitale. Un secondo termostato a dilatazione metallica (ricavato da un boiler in demolizione) sarà messo in serie a quello elettronico in modo da salvaguardare l’apparecchiatura da eventuali blocchi della parte elettronica. Un altro termometro verrà applicato alle pareti esterne della pentola per avere una visione approssimativa ma pronta della temperatura.”
La tecnologia attuale (CCD) non necessita ovviamente di tale attrezzatura, ma, come in altri casi, permette risultati superiori e standardizzati, ma ha fatto perdere quell’aspetto pionieristico e artigianale che contribuiva anch’esso al fascino dell’astrofilia.